Non è tirocinio, è sfruttamento!

La seconda significa che, tagliando con l’accetta e non avendo pretesa di esaustività, si impiega parte del proprio tempo nel produrre prodotti e servizi che verranno poi rivenduti, auspicabilmente a un prezzo maggiore di quello sostenuto nel processo produttivo, creando valore.
La maggior parte delle persone che lavora vende direttamente il proprio tempo a persone o aziende in cambio di un salario.
Rendita, invece, significa poter vantare dei diritti sui frutti del lavoro altrui.
Ma cos’è lo stage?
Lo stage per definizione è un periodo, generalmente breve e intenso, di addestramento per una determinata pratica.
L’idea sottesa a questa tipologia di contratto è che il lavoratore venga formato negli interessi precisi dell’azienda la quale, a sua volta, si presume abbia l’interesse di assumere una persona perfettamente funzionale alla sua organizzazione.
Sempre di lavoratrici e lavoratori parliamo: persone che, per quanto potenzialmente inesperte e non formate, disfunzionali, necessitano di un salario per vivere, motivo per il quale si ritrovano a vendere il proprio tempo.
Se vi sembra un elenco esaustivo di tutto quello che un tirocinio dovrebbe essere, e quindi che le relative mancanze in questi campi siano particolarmente gravi, avete ragione.
Raccogliere dati su questa tipologia di contratti non è per nulla facile, poiché il Ministero del lavoro non li fornisce aggiornati, facilmente consultabili e a un livello congruo di disaggregazione.
Ciononostante, si possono comunque compiere delle interessanti analisi.
Ad oggi si va dal minimo di 300 euro mensili della Sicilia agli 800 della regione Lazio.
Precedentemente era possibile per le imprese avere lavoratori in formazione per anche un anno, senza corrispondere nessuna retribuzione. Tale periodo di tempo poteva addirittura raddoppiare nel caso di personale “fragile” con disabilità o neurodiversità.
La messa fuori legge degli stage non retribuiti non risolve però del tutto il problema.
Dei 356 mila lavoratori in stage nel 2019 il 43% risulta aver stipulato un contratto qualsiasi, sia presso la “stessa azienda” sia presso un’altra organizzazione.
Ora, quando si riporta qualsiasi contratto si intende qualsiasi contratto: dal determinato di 12 settimane ai rarissimi casi, il 12%, dei “fortunati” che trovano l’indeterminato.
Avendo dei dati così “sporchi” è difficile inferire granché, per dire il nesso causale tra il fare uno stage presso A ed essere assunto in B andrebbe indagato meglio[1].
In ogni caso affermare che lo stage sia finalizzato all’assunzione pare forzato, poiché se anche fosse vero raggiungerebbe l’obiettivo meno di una volta su due.
Un esempio su tutti la Lombardia, che quando c’è da primeggiare in quanto a ingiustizie sociali raramente esce dal podio: il minimo regionale per un full time è 500 euro, o 400 più ticket, laddove un affitto a Milano in singola costa 450 euro mensili[2].
Un lavoratore in stage, pertanto, nonostante venda a un’azienda 40 e più ore del suo tempo, dalle 9 alle 18 per cinque giorni a settimana, non riesce a garantirsi in autonomia bisogni fondamentali come una dimora, il gas per riscaldarla e tre pasti al giorno.
Quale è il senso di consentire e legalizzare occupazioni lavorative che non permettono neppure di vivere sopra la soglia di povertà?[3]
Nella vulgata riecheggia sovente una dichiarazione del tipo “mi costa formarti quindi pure pagarti anche no”.
Statistiche per questo ambito di fatto non ce ne sono, poiché non è dovere delle aziende specificare nel contratto come intendono formare il loro personale: non vi è alcuna presentazione dell’offerta formativa alla stipula del contratto.
Dalle testimonianze, euristiche e per nulla esaustive, che abbiamo raccolto negli anni come rappresentanti degli studenti, i momenti formativi sono sporadici confronti con il personale più esperto tra una consegna e l’altra, dove a farla da padrone è la capacità di arrangiarsi del tirocinante.
Non mi è ancora capitato di sentire testimonianze dei tirocinanti che riportassero di essere sinceramente soddisfatti di come fossero stati seguiti e istruiti, al massimo esprimevano soddisfazione di non essere stati trattati ancora peggio.
Significa che se anche ti insegnano qualcosa, comunque non ti pagano per metterlo in pratica.
Anche nella medesima azienda.
Questa specificità dei tirocini si inserisce nella macro-tendenza delle imprese italiane di non riuscire a impiegare appieno le abilità e competenze possedute dalla forza lavoro: la produttività italiana ristagna da anni laddove paesi comparabili, segnatamente Francia e Germania, non hanno subito una tale battuta d’arresto. [4]
Molto bene eh, ma excel.
A partire dalla raccolta dei dati: inesistente.
L’unica maniera per comprendere il fenomeno è l’indagine euristica, cioè chiedere agli amicə e farsi un’idea.
La retribuzione risulta ancora peggiore, perché non vi è obbligo di retribuzione nei curricolari e i lavoratori tirocinanti sono ancora di più in svantaggio in sede di contrattazione.
Paradossalmente l’università, che dovrebbe avere interesse nella formazione e nella salute dei suoi studenti, raramente riesce ad avere un impatto positivo sulle condizioni lavorative.
Le testimonianze all’ufficio preposto del Politecnico di Milano per denunciare orrori e abusi si sprecano, ma è costante la sensazione che tali segnalazioni cadano nel vuoto.
Ad oggi però, tutte le liste di rappresentanza qui al Politecnico hanno messo nel loro programma di non dare visibilità ai tirocini non pagati sui canali di ateneo, chiedendo alle istituzioni di non essere complici di tale sfruttamento[5].
Qualcosa si muove e pare per il meglio.
In un paese, unico in Europa, che vede negli ultimi trent’anni i suoi salari contrarsi del -2,9%[6], mentre paesi conterranei come la Francia registrano +31%, il tirocinio come istituto giuridico deve capire cosa vuole fare da grande.
Uno degli obiettivi conclamati delle aziende, insieme a creare valore, è quello di sopravvivere il più a lungo possibile[7]. Quello del ricambio generazionale e del trapasso delle nozioni è per le imprese una missione cruciale, inderogabile, da presidiare con forza: un costo che devono assumersi a livello collettivo e non scaricare a livello individuale.
Rifiutare la logica in cui sono le aziende che “fanno un favore” ai lavoratori concedendo loro di lavorare (cioè vendere il proprio tempo), è una condizione necessaria per smettere di sentirsi in colpa e subordinati rispetto alla classe imprenditoriale.
Rifiutare gli stage con ogni forza, soprattutto per chi si può permettere di fare a meno dei miseri contributi che portano con sé, è un punto di partenza.
Organizzarsi per trascendere l’iniziativa individuale, comprendendo la forza generatrice insita nella capacità del lavoro come mezzo per ottenere obiettivi comuni per il benessere dei molti, la sua naturale conseguenza.
All’atto pratico, come gesto semplicissimo e quasi banale, che ne dite di sostituire “datore di lavoro” con “prenditore di forza lavoro”?

^[1]Fare un tirocinio in una società di consulenza ed essere assunte come cassiere può dirsi un successo?
^[2]425 la doppia nel caso ve lo steste chiedendo.
^[3]Per calcolare la soglia di povertà ho usato il sito dell’ ISTAT. Il computo è in funzione di molteplici variabili ma si può immediatamente vedere come con uno stage al minimo sia praticamente impossibile riuscire a oltrepassarla.
^[4] Dati istat
^[5] Considerate che questo articolo uscirà, se tutto va bene, su una rivista universitaria opportunamente controllata dagli uffici: speriamo che la prendano bene nello spirito di una critica democratica…
^[6] Dati ocse
^[7] Certe hanno chiaramente una scadenza, e.g. aziende nate per fornire servizi per grandi eventi come Expo 2015. Per approfondire cfr Azzone – L’impresa